Tanto tempo fa, quando ancora ero giovane, ero un’abile corsara. Depredavo navi di ogni tipo, francesi e spagnole e olandesi, grandi e piccole. Non ricordo molto di quel periodo, ma ho buona rimembranza del mio gatto, un magnifico abissino dal pelo ambrato ed il corpo snello, che chiamavo Francis Drake, come il famoso pirata che, non a caso, era mio zio.

Francis era un gatto molto intelligente: una volta, durante una lotta feroce contro degli olandesi, balzò su un uomo che mi stava assalendo da dietro mordendolo sulla nuca.

L’uomo svenne, ed io ebbi salva la vita. Ma l’episodio che ricordo meglio è quello che a me piace chiamare “la caduta degli indigeni”. Ero naufragata con dieci dei miei uomini e Francis su un’isola apparentemente deserta. Lo ricordo come fosse ieri: ora ve lo racconto.

Cos’è questa sensazione? Tocco il terreno. È fatto di granelli minuscoli: sabbia. Ma no, non è possibile. Fino a poco fa ero sulla tolda della nave a combattere gli spagnoli.

Eppure è così: sono su una spiaggia. Il mare mi lambisce i piedi. Sono una naufraga. Mi alzo.

Dov’è Francis? -Francis? FRANCIS!! DOVE SEI? -. Mi sembra un incubo. Dove non c’è Francis c’è sventura. Poco ma sicuro. -Capitano Grace!! – sento. Chi chiama il mio nome? Sembrerebbe la voce di Black, il nostromo. E infatti eccolo: da lontano sembra ancora più basso e cicciottello.

Per un attimo non lo vedo: una folata di vento caldo, probabilmente Scirocco, ha spostato i miei lunghi capelli biondi davanti ai miei occhi. Quando li scosto, metà della mia ciurma è davanti a me.

Il nostromo è inginocchiato e tiene il mio gatto in alto di fronte a me.

La sensazione di torpore precedente svanisce all’improvviso e spalanco gli occhi.

Francis è esanime, il corpicino snello è ingobbito sul ventre a causa dell’eccessiva assimilazione di acqua di mare. Mi precipito su di lui e inizio a schiacciargli il pancino. Sembra stia rinvenendo: sputa acqua e tossisce. Dopo qualche minuto è di nuovo in piedi a scrollarsi l’acqua di dosso.

Gridando il suo nome, lo abbraccio. Lui mi lecca la faccia con la sua lingua ruvida.

Sono così felice che quasi non mi accorgo che con una zampa mi sta tirando la camicia.

-Cosa c’è, Drake? -gli chiedo. Lui dirige il musetto verso l’alto, e mi fa notare che il cielo si sta incupendo. Mi rabbuio anch’io: -Ricevuto. -. Mi rialzo. -Ciurma, senza timore, nella foresta a cercare riparo! -ordino. Ci dirigiamo verso la foresta lì vicino. È decisamente bella e verdeggiante. Ovunque, per terra e sulle conifere, fiori tropicali rossi, rosa e bianchi. Su alcuni alberi vedo frutti strani, gialli, di forma allungata, su altri frutti sferici bruni e pelosi.

Il canto degli uccellini mi distrae dal rombo sempre più vicino del temporale.

Dopo un po’ che camminiamo, sento delle voci. Parlano in una lingua strana, quindi credo che me le sia immaginate. Ma non è così. Dai cespugli spuntano decine di indigeni dalla pelle color sughero e i capelli neri, divisi in tante treccine chiuse da perline di legno colorate, vestiti solo d’un gonnellino di paglia gialla. Sono alti almeno due spanne più di noi.

Ci assalgono e, dopo una lotta feroce, hanno la meglio. Ci legano i polsi e le caviglie a dei bastoni, e ci trasportano a peso morto al loro villaggio. Vedo Francis sparire tra la vegetazione, e grido: -Vai Francis, vai! Salvati almeno tu. -. Il villaggio degli indigeni è un misero accampamento di una dozzina di capanne di paglia. Sono disposte in cerchio e, al centro, c’è un enorme falò.

Temo di sapere cosa vorranno cuocerci. Ci sbattono a terra di fronte ad un trono di foglie di palma intrecciate, sopra al quale è seduto un uomo con una collana di alluci umani.

L’uomo dice qualcosa agli altri, che ci slegano e ci fanno sdraiare a pancia in su.

Un uomo con la faccia dipinta prende un coltello e lo alza sopra la mia testa con fare cerimonioso.

Urlo. È la fine. I miei uomini mi guardano, smarriti: non ho mai urlato di paura.

Ma proprio nel momento in cui l’uomo dipinto sta per calare il coltello su di me, arriva Francis, che gli salta addosso e lo azzanna a tradimento al polpaccio. L’uomo grida facendo cadere il coltello ed io mi rialzo e lo afferro prima che possa prenderlo qualcun altro. La mia ciurma mi imita.

Il capitano Grace Drake è tornato! Cominciamo a lottare, rinvigoriti, e stavolta siamo noi a vincere.

Black e gli altri incendiano il villaggio, mentre io e Francis uccidiamo guerrieri a destra e a manca.

Di nuovo insieme, di nuovo uniti. Prima che i pochi sopravvissuti si riprendano dalle ferite e tornino all’attacco, fuggiamo nella foresta, ma ci accorgiamo che non sappiamo come lasciare l’isola. John, il timoniere, mi chiede: -Come facciamo a tornare a casa, capitano? -.

-Corpo di mille balene! Io…devo ammettere che non lo so. -rispondo.

Ma poi Francis si mette a correre all’impazzata. -FRANCIS! -grido, ma non mi sente o mi ignora.

Ci mettiamo a inseguirlo. E dove ci porta? Nell’insenatura dove gli indigeni tengono le barche!

Ne rubiamo due e iniziamo a remare. Io accarezzo Francis, lui fa le fusa. Fortunatamente, non è ferito. È tutto merito suo se siamo salvi. Le nuvole minacciose se ne sono anche andate. Dopo parecchie ore approdiamo all’isola irlandese che ci fa da covo, e lì ricostruiamo subito la nostra nave e, dopo esserci riposati qualche giorno, ripartiamo verso l’avventura più forti che mai!

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